LIBRI SEGNALATI
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Il libro di Fabrizio Cruciani, Registi pegagoghi e comunità teatrali nel Novecento (1a ed. Sansoni 1985, 2a ed. Eamp;A 1995), da tempo esaurito, è stato ripubblicato in una nuova veste dall'editore romano Editoria e Spettacolo, nella collana Antigone. Con una scelta che al suo primo apparire sembrò polemica e che oggi viene invece riconosciuta come buon senso critico, il libro individua il filo principale del teatro del Novecento nei protagonisti del rifiuto: coloro che, minoritari, marginali o quasi invisibili per le cronache teatrali, in realtà hanno fatto la storia del teatro contemporaneo. Come possibile esergo per una riedizione di questo libro, Fabrizio Cruciani si era appuntato la seguente frase di Fernand Braudel: "La globalizzazione non è la pretesa di scrivere una storia totale del mondo. Non è questa pretesa puerile, simpatica e folle. Essa è semplicemente il desiderio - quando si è affrontato un problema - di sorpassarne sistematicamente i limiti. Secondo me non esiste un problema che sia circondato da muri, che sia indipendente".
Il teatro di Luchino Visconti. Scritti di Gerardo Guerrieri Stefano Geraci (a cura di) Roma, Officina, 2006.
Il volume raccoglie i saggi e le note di lavoro dedicati a Visconti da Gerardo Guerrieri, l'uomo di teatro che più di altri ha contribuito, come collaboratore e osservatore dei suoi spettacoli, a delinearne i caratteri originali. I contributi di Guerrieri sono compresi tra due saggi di Stefano Geraci. Il primo esamina il complesso nodo di rapporti che ha legato Guerrieri a Visconti nel contesto del teatro italiano del dopoguerra, il secondo analizza le radici teatrali del mondo viscontiano. La generazione di Guerrieri, la generazione del fascismo, della guerra e del dopoguerra, quella che fu ispirata da Visconti, e che si interrogava drammaticamente sul silenzio dei grandi maestri, sull'assenza di Craig, sul valore di Vachtangov, costituisce ancora un enigma inquietante. "Eravamo costretti a vivere una vita che non volevamo - scrive Guerrieri in un memoriale degli anni Settanta, ricordando la propria giovinezza - perciò leggevamo pressocheacute; di nascosto e malvisti opere americane e francesi [...]. Da una parte odiavamo quello che eravamo costretti a fare (esercitazioni militari, passo dell'oca e altre cose ormai risapute) dall'altra non potevamo fare a meno di non farle, che altro avremmo potuto fare? Così ci mettemmo a fondare un teatro. Percheacute; questo era l'unico modo per costruire un mondo come noi lo volevamo: dove non ci fossero più divise e sentimenti falsi [...] Poi ci si perdette nell'inguaribile credenza che la "regia" potesse salvare tutto, dare un significato a tutto" (p. 7).
Il teatro della devozione. Confraternite e spettacolo nell'Umbria medievale Mara Nerbano, Perugia, Morlacchi, 2006 [ma distribuito nel 2008].
Il volume mette in atto le più avanzate e duttili metodologie degli studi teatrali, getta sul tavolo le domande più ardue e le poste più ardite. Senza dirlo mostra un robusto scontento per gli studi irreggimentati. Uno degli aspetti straordinari di questo libro - vasto, colmo di erudizione, ineccepibile nella documentazione - sta nel riuscire a richiamare in vita un microcosmo teatrale e insieme un modo appassionato e sicuro di guardarlo, di proiettargli accanto contesti e bivii significativi, con autorevolezza, senza fantasie digressioni o scappatoie (senza mai riposarsi, per esempio, sui facili cuscini del dilettantismo parateologico e parareligioso, oggi molto di moda). L'argomento non sembrerebbe di quelli fatti per attrarre. Dal punto di vista dell'erudizione e degli specialismi non ha il dono dell'esotico. Ai più anziani rievoca la prima liceale e le bibliografie positiviste. Agli occhi odierni rischia di rievocare l'arteturismo umbro, ben coltivato, come quello toscano, e come quello lodevolissimo e stucchevole. Mara Nerbano non ci casca: si tiene ferma al dramma del guardare. Siccheacute; entra a far parte del racconto anche il momento in cui si dissipano le tracce, non per smemoratezza o distrazione, non per miscredenza, ma al contrario per l'ovvia e benintenzionata simonia dei religiosi. Le virtù taumaturgiche delle laude, ad esempio, sembrarono trasferirsi alle immagini dei gonfaloni, che per le loro virtù miracolose erano venerati come le reliquie dei santi. Perciò scavalcarono i secoli. Ma la fortuna di questi dipinti volgeva già al termine, "quando fra il 1820 e il 1835 i padri del Sacro Convento [d'Assisi vendettero] al collezionista Johann Anton Ramboux di Colonia il Gonfalone della Peste conservato nella loro basilica". Sono le ultime parole del libro, a p. 335 (F.T.).
Mejerchol'd Begrave;atrice Picon-Vallin MTTMediazioni, Perugia, 2006.
Nel novembre 2006, è apparsa la versione italiana del volume di Bèatrice Picon-Vallin, Mejerchol'd, Perugia, MTTMediazioni, traduzione del diciassettesimo volume (Meyerhold) de "Les voies de la crèation thèatrale", Paris 1990. In quasi cinquecento pagine, dense di dettagli, di informazioni e di immagini, la Picon-Vallin ha ricostruito le principali tappe e gli spettacoli di colui che è stato forse il più grande regista del ventesimo secolo, protagonista, per di più, di un'epoca unica come sono stati i primi trent'anni del Novecento in Russia. Di particolare interesse, nel volume, oltre al ricco materiale iconografico, sono le parti relative alle interferenze tra la cultura sovietica e quella europea, in particolare tedesca. Ma sono le ricostruzioni di alcuni spettacoli d'eccezione, de Il revisore, soprattutto, a fare di questo libro un'opera di utilità imprescindibile. In questo numero di "Teatro e Storia" pubblichiamo le pagine del primo biografo di Mejerchol'd, Volkov, sul celebre Dom Juan del 1908. Nel volume della Picon-Vallin possiamo trovare su questo spettacolo un'ottima sintesi delle diverse fonti e due interessanti immagini sullo spazio scenico così come il regista e il suo scenografo, Golovin, l'avevano immaginato. L'edizione italiana del volume della Picon-Vallin, curata da Fausto Malcovati, è un'iniziativa del Centro internazionale di studi di biomeccanica teatrale di Perugia (labiomeccanica@microteatro.it), che ne sta organizzando anche le presentazioni e la vendita.
Il cavallo cieco. Dialoghi con Eugenio Barba e altri scritti Iben Nagel Rasmussen, edizione a cura di Mirella Schino e Ferdinando Taviani Roma, Bulzoni, 2006
Nell'ampia bibliografia sull'Odin Teatret, questa è forse la storia più efficace e completa, vista e raccontata dall'interno, attraverso il dialogo fra il regista e fondatore e una protagonista come Iben Nagel Rasmussen, che è non solo una grande attrice, ma una presenza cruciale per molti snodi della storia del suo teatro. Iben Nagel Rasmussen, nata a Copenaghen nel 1945 da Ester Nagel e Halfdan Rasmussen, entrambi scrittori, attrice all'Odin dal 1966, è anche una vera scrittrice, capace di inventare forme letterarie incisive e poetiche. I suoi testi sono diventati il punto di partenza di due suoi spettacoli teatrali, Itsi-Bitsi (1992, regia di E. Barba) e Il libro di Ester (2006). Nell'edizione italiana de Il cavallo cieco, più ricca rispetto all'originale danese (1998), questi testi vengono pubblicati accanto a un dialogo fra Eugenio Barba e Iben Nagel Rasmussen sul training (Alla ricerca del corpo trasparente); all'articolo dell'attrice Le mute del passato e ad altri suoi scritti. A questi si aggiungono alcuni interventi di Eugenio Barba e di Torgeir Wethal che testimoniano e commentano gli ultimi due spettacoli dell'Odin Teatret, successivi alla pubblicazione del libro in Danimarca (Mythos, 1998 e Il sogno di Andersen, 2004). Completano il volume un'aggiornata Cronologia e un capitolo di immagini e parole (Ottanta immagini dell'Odin Teatret - Album) ideato e composto da M. Schino.
Luigi Pirandello, Saggi e interventi A cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani Milano, Mondadori, 2006 (I Meridiani)
Il volume (di CLVII+1635 pp.) è diviso in cinque parti che rispondono ad altrettante fasi della carriera dello scrittore: Il mestiere del letterato; I due libri del 1908; Dalla provincia letteraria alle capitali del teatro (1909-1925); Grande scrittore nel mondo dello spettacolo (1926-1936). Raccoglie la scelta più ampia oggi disponibile fra gli scritti non d'invenzione di Luigi Pirandello, includendo molte sue interviste e liberando dalla quarantena gli scritti in collaborazione con il figlio Stefano. Saggi critici, dunque, quello che in genere viene meno valutato - o valutato come impostazione teorica della sua vita di scrittore. Pure, forse anche in un altro senso una parte essenziale del lavoro di Pirandello. "L'attivismo di Pirandello - leggiamo nell'Introduzione - che da poeta-filologo si trasforma velocemente in narratore-critico militante, si lascia comprendere anche come il tentativo di crearsi per lo meno un simulacro, uno sfondo di carta che sostituisca il microcosmo nel quale distinguersi. L'opera esterna, fino a L'umorismo, gli serve soprattutto a questo [...]. Mentre l'opera interna cresce, con l'esterna egli lavora per crearle un'ombra, pannelli contro cui proiettarla, fonti di luce che la stanino dal corpo. Percheacute; è l'ombra a dar l'effetto della profondità e del volume. A posteriori, risulta essersi mosso lungo tre direttrici: 1) consolidare la propria figura di critico militante, tentando di accreditare una mappa della letteratura italiana capace di accoglierlo degnamente. 2) Creare i canali atti a mettere in diretto contatto la propria scrittura d'invenzione con la propria scrittura critica. 3) Suscitarsi attorno un gruppo non di seguaci o di imitatori, ma di fantasmatici consanguinei, bizzarri, sorprendenti, una specie di legione straniera in grado di tagliare le strade-pantano più frequentate dalla letteratura del suo tempo. Alla luce di queste tre direttrici, il modo in cui interpreta il suo mestiere di letterato appare meno ovvio. Non è solo un lavoratore indefesso. Neacute; è soltanto un critico pieno di scontento e fantasia, ma di peso tutto sommato modesto. Non sta tentando di farsi propaganda. Fa anche questo, certo. Ma - ed è il più importante, almeno per chi in questo gran lavorio vuole orientarsi - tenta di territorializzare uno spazio brado e indifferenziato".
Pietre d'acqua. Taccuino di un'attrice dell'Odin Teatret Julia Varley Milano, Ubulibri, 2006
Un libro misto, qualche residuo di un'autobiografia rifiutata, e molte riflessioni di lavoro: sulla drammaturgia d'attore; sulle donne e il teatro; sul training e il suo senso, la presenza scenica, il gioco delle opposizioni, l'improvvisazione e la composizione, la partitura e la sottopartitura, il testo e il sottotesto, il personaggio, il rapporto attore-regista. "Attrice: mi sono resa conto che lo ero quando ho scritto questa professione nel passaporto, dopo qualche anno che facevo parte dell'Odin Teatret, il gruppo di teatro danese fondato nel 1964. Da adolescente non avevo mai pensato di diventare attrice, era un lavoro che associavo alla falsità. Ero timida, parlare in pubblico mi costava fatica e non mi sarei mai immaginata su un palco. Un film che vidi a dieci anni è il primo ricordo che associo al teatro. Fu proiettato in una sala teatrale a Milano dove normalmente si presentavano commedie in inglese. Mi lasciò una piacevole sensazione. Raccontava la storia di alcuni ragazzi naufraghi e le loro avventure su un'isola. Un anno dopo mia nonna mi portò ai primi veri spettacoli. A Londra vidi danzare Nureyev e assistetti a una matinèe di Sogno di una notte di mezza estate. Contai quante volte Nureyev incrociava le gambe quando si sollevava da terra in un salto che sembrava eterno. Nel Sogno di una notte di mezza estate, presentato in un parco all'aria aperta, mi divertirono i personaggi che apparivano da dietro gli alberi. Conoscevo Shakespeare da un libro per bambini in cui le tragedie erano state cambiate in storie a lieto fine. Quando mi capitò di vedere il film di Romeo e Giulietta di Zeffirelli, consumai un foulard di lacrime perchè non mi aspettavo tanti suicidi. Isole di naufraghi, attività fisica e attori in mezzo al verde: queste mie prime immagini di teatro riaffiorano oggi come realtà, costrizione e necessità nel mio lavoro di attrice. Le isole galleggianti del terzo teatro, il training, e gli spettacoli in luoghi inconsueti sono ormai riconosciuti come parte del variegato mondo del teatro [...]. Il primo posto in cui ho fatto teatro è stato un garage, a Milano".