Teatro e Storia

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Il teatro di Gaetano Greco Valentina Venturini Napoli, Editoriale Scientifica, 2018

Gaetano Greco è uno dei fondatori dell'Opera dei pupi agli inizi dell'Ottocento: figura mitica, che si tinge dei colori della leggenda. La Venturini ci mostra che è stato anche molto altro: luogotenente garibaldino, uomo di natali non umili e di non umile cultura, detentore di una fortissima istanza didattica e patriottica, creatore non soltanto di marionette armate ma di marionette circensi, in grado di eseguire numeri acrobatici di straordinaria complessità. È un quadro che coincide con la vulgata della nascita e dei protagonisti dell'Opera dei pupi? Naturalmente no. E infatti questo libro, frutto di anni di paziente ricerca e dello studio di una vasta mole di materiali inediti, scardina molti degli stereotipi associati all'immagine tradizionale dell'Opera dei pupi, mostrando la realtà di un mondo assai più complesso e stratificato. È il caso in primo luogo del problema delle origini dell'Opera, che appare – finalmente – come molto più di un problema di “dove e quando?? (Palermo, Catania, Napoli? 1827, 1833, 1835?) e assume la sua vera natura di questione complessa: chiama in causa il problema dell'esistenza quasi esclusiva di fonti orali, in cui ogni puparo o famiglia di pupari si fa e vuole farsi detentore della tradizione con la maiuscola; e chiama in causa la questione di una tradizione che si presenta come atavica ma in realtà è sorta a ridosso della modernità, una tradizione inventata (secondo la formula di Eric Hobsbawn) che appena nata già tende a farsi tradizionalismo. In questa prospettiva, sfrondata almeno in parte delle categorie di “rozzezza?? (sociale, culturale e artistica), “popolarità?? e “tradizionalità??, che costituiscono sì dei tratti caratterizzanti e distintivi di questo genere teatrale ma anche delle zavorre per una sua corretta valutazione, l'Opera dei pupi emerge in una luce nuova e più autentica. E questo permette di guardare con interesse ancora maggiore alla storia di alcuni suoi straordinari protagonisti, come Gaetano Greco e il figlio Achille, che si snoda tra la Sicilia, Roma e il Sud America


Il teatro in fotografia. L'immagine della prima attrice italiana fra Otto e Novecento Marianna Zannoni Pisa, Titivillus, 2018

È attraverso la vicenda artistica di tre grandi prime attrici come Adelaide Ristori, Eleonora Duse e Tina Di Lorenzo che l'autrice di questo studio ricco e molto documentato ricostruisce il racconto che la fotografia fa del teatro italiano a cavallo tra i due secoli. I punti di contatto tra pratica teatrale e prassi fotografica, la formula del ritratto allestito in studio e la gestione della posa, i processi di diffusione delle immagini delle attrici costituiscono gli snodi attorno cui si sviluppa un discorso capace di intrecciare la storia della fotografia italiana e una scena teatrale caratterizzata da figure femminili magnetiche e influenti, grandi professioniste che nel nascente sistema della pubblicità e della comunicazione diventano modelli della donna moderna. Elaborazioni artistiche o strumenti commerciali, le fotografie sono qui prese in esame in tutta la loro gamma di possibilità e di utilizzo e di destinazione. Un patrimonio straordinario che pone lo storico davanti ai cataloghi di grandi mostre e alle riviste di costume, e che, come dimostra questo studio della Zannoni, richiede strumenti specifici di lettura che restituiscano la complessità di questi documenti e delle informazioni dirette e indirette di cui sono le tracce. (Samantha Marenzi)


Odin Teatret Archives Mirella Schino London-New-York, Routledge, 2018

È una descrizione dei fondi e dei materiali conservati negli archivi dell'Odin (oggi conservati presso la Biblioteca Reale di Copenhagen e presso la sede dell'Odin). Il titolo della edizione italiana (più preciso, ma meno efficace) è Il libro degli inventari. Odin Teatret Archives, Roma, Bulzoni, 2015. È infatti un libro scritto a partire dagli inventari dell'archivio, per permettere agli studiosi un primo approccio a questa massa documentaria unica, per coerenza, completezza, continuità nel tempo, ma anche perché non riguarda solo l'Odin, ma documenta i molti mondi che questo teatro longevo ha incrociato, o che gli si sono coagulati intorno. Come gli inventari dell'archivio, questo libro racconta i documenti, ma, quando è possibile, anche la memoria (precisa o tendenziosa) dell'Odin stesso nei confronti della sua storia. Al suo interno sono pubblicate fotografie, per lo più non di spettacoli, ma di vita quotidiana nel teatro (un'altra delle ricchezze degli archivi dell'Odin), sono riportati frammenti di diari, di lettere, di dattiloscritti. Scrive Torgeir Wethal su un minuscolo taccuino, volendo appuntare in due righe il ricordo di un baratto del 1976 con una tribù di Yanomami: «Eugenio afflitto da serpenti, zanzare, pipistrelli, poligamia». Scrive Graciela Ferrari, attrice, regista, scrittrice argentina, in una lettera a Barba: «La mia vita era il gruppo, null'altro esisteva o accadeva fuori di lì: la possibilità di creare, gli affetti, la decisione finale e la prima. Ma il gruppo – prima uno grande e poi uno piccolo di tre persone, come sai – ebbe fine. Cultura di gruppo latinoamericana? Gruppi di teatro spontanei, immediati? Terzo Teatro da queste latitudini? Non so. Forse tu puoi rispondere a queste domande, o Nando [...] Ciò che so è che io, come in un esilio di carattere esistenziale più che politico – benché anche politico –, io che rimasi fuori dal mio paese senza nessuna possibilità di fare ritorno, ho continuato ad errare, senza essere capace di fermarmi in nessun luogo per lungo tempo». Scrive Eugenio Barba a Franco Quadri: «Caro Franco, vent'anni dopo... perché sono esattamente tanti gli anni che ci conosciamo – un mese in più. Siamo diventati quello che volevamo?». E Ferdinando Taviani, consigliere letterario dell'Odin e spettatore d'eccezione, si appunta le parole con cui Iben Nagel Rasmussen gli descrive la sua arte: «La fragilità [l'impressione di fragilità che dà Iben allo spettatore] di cui parli è essenziale. Per me non è l'equivalente di debolezza. Al contrario. Se tu mi pensi in questo modo, se io faccio appello al tuo bisogno di proteggere, forse è perché ho messo allo scoperto una parte di me stessa che normalmente teniamo nascosta, e ho infranto alcune delle armature dietro le quali abbiamo imparato a ripararci». C'è un mondo complesso, dietro questi documenti, che va molto al di là dell'Odin, e che per lo più attende ancora di essere indagato. Questo libro è un invito.


An Indra's Web. Appia, Craig, Stanislavskij, Mejerchol'd, Copeau, Artaud Mirella Schino Wroc?aw, Icarus, 2018

Secondo la filosofia buddista esiste una relazione tra ogni idea e cosa, come se ognuna di esse fosse lo snodo luminoso di una rete invisibile, e acquistasse luce ulteriore di riflesso dalle altre. Viene chiamata rete d'Indra. Quando mi sono imbattuta in questa immagine (usata, per argomenti niente affatto buddisti, in un volume di Timothy Brook) mi è sembrato che fosse il modo giusto per definire la forza di impatto dei grandi maestri del Novecento. Nessuno di loro avrebbe avuto un così grande effetto se la luce di ognuno non fosse aumentata per il riflesso degli altri. Erano tanti, misteriosamente collegati tra loro: una rete, ma una rete più che altro irreale, poco concreta, determinata dallo sguardo degli spettatori. Sempre in quest'ottica, la “rete?? dei maestri pescava e trascinava con sé tutte le altre forme, diverse, più moderate, talvolta inconciliabili, di cambiamento. Così è nata quella fertile confusione da cui è saltato fuori il Novecento teatrale. E da qui è venuto fuori il problema del pubblico, che ora è molto di moda, ma non perciò meno basilare. È importante provare a capire certe radici comuni, tra teatranti e spettatori, che affondano nella teosofia, nel femminismo, in Arts and Crafts, in certe utopie politiche, nelle comunità tolstoiane, tra le suffragiste, in tutto quello che costituisce la mentalità “nuova?? (donna nuova, uomo nuovo, teatro nuovo) di inizio secolo. È importante soprattutto perché da qui viene fuori una ricca tessitura di equivoci, che ancora ci ingombrano la vista. Infine, questo libro ha una motivazione segreta: volevo che fosse visto, riconosciuto, il grande debito che molti di questi maestri dichiarano nei confronti dell'arte dei Grandi Attori, che per loro, per i maestri, hanno fatto parte di quella grande storia del teatro di cui si sentivano parte, e non di un presente che volevano spazzare via. La versione italiana, leggermente differente (L'età dei maestri. Appia, Craig, Stanislavskij, Mejerchol'd, Copeau, Artaud e gli altri) è uscita presso la Viella nel 2017.


Tre carteggi con Lucio Ridenti. Anton Giulio Bragaglia, Guglielmo Giannini, Tatiana Pavlova Franco Perrelli Bari, Edizioni di Pagina, 2018

Un racconto storiografico realizzato attraverso singoli ritratti di persone centrali nella vita teatrale tra fascismo e dopoguerra, e intrecciando per il lettore un filo complesso di idee teatrali, iniziative, carriere e piccole e grandi polemiche. Tre carteggi con Lucio Ridenti è un libro prezioso, che attraverso le lettere scambiate tra il direttore de «Il Dramma» e personalità di spicco del panorama teatrale della sua epoca, mentre ripercorre dall'interno alcune delle dinamiche editoriali della rivista, dà conto da un'angolazione insolita e privilegiata di anni fondamentali per la vita della scena italiana. Sulla base delle carte del Fondo Lucio Ridenti, e dei fascicoli di corrispondenza conservati da Lidia Ronco, storica segretaria de «Il Dramma», recentemente acquisiti dal Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, Perrelli disegna un'immagine di Ridenti un po' più mossa di quella, rimasta canonica, di un inattuale conservatore: senza omettere le contraddizioni delle sue prese di posizione sul teatro del suo tempo, lo sguardo corre all'interno e all'esterno delle polemiche teatrali e giornalistiche per aprire insoliti squarci su un panorama più ampio di quello che sarebbe visibile dalle sole pagine della rivista. Tra piccoli episodi e questioni personali (come la nota querelle tra Anton Giulio Bragaglia e Silvio d'Amico, o quella tra quest'ultimo e la Pavlova, o le lamentele del commediografo Giannini, più amato dal pubblico che dalla critica), emergono i principali temi affrontati dalla discussione teatrale di quegli anni – a cominciare dal complesso rapporto tra teatro di tradizione e regia moderna. Un affresco vivace e corale di una fase di radicale mutamento del sistema teatrale italiano, dominato dall'immagine di Ridenti e delle sue opinioni intessute di «nostalgia del passato» e insieme di «passione del presente, che si fa in itinere coscienza delle evoluzioni dell'epoca» (p. 56). (Raffaella Di Tizio)


Stanislavsky in the World. The System and its Transformations Across Continents edited by Jonathan Pritches and Stefan Aquilina Bloomsbury, London-Oxford- New York-New Delhi- Sydney 2017

Attraverso i contributi di eminenti specialisti del campo, il volume si propone di scoprire alcuni dei «lesser known paths through which Stanislavski's ideas and practices were disseminated, adopted, resisted and ultimately changed» in: Europa, Cina e Giappone, Latino America, Australasia, India e Bangladesh, come nell'indice viene ripartita l'estensione del pianeta. Naturalmente, i percorsi maggiormente conosciuti sono quelli relativi alla Russia e all'America: che infatti vengono congiuntamente presi in esame nell'introduzione di Stefan Aquilina, resto del mondo a parte per così dire. Nell'introduzione dell'altro curatore Jonathan Pritches, l'accento viene posto sul concetto di “trasmissione??, applicato in particolare al cosiddetto sistema – o metodo – di Stanislavskij. È complessivamente un volume di grande interesse e d'indubbia utilità, anche se non si possono non notare alcune assenze. Come la Polonia, ad esempio. Sarebbe stato interessante veder proiettato sul contesto nazionale il caso Grotowski, la cui eccezionalità come erede di Stanislavskij fu comunque l'eccezionale conferma di una regola “da regime??. O l'Argentina, non foss'altro perché in quel paese, prima che in altri dell'America Latina e non solo, Stanislavskij circolò nella versione russa dei suoi libri anziché in quella americana, sconfessata dallo stesso autore. Tornando all'introduzione di Aquilina, se è dalla Russia e dall'America che si dipartono i percorsi di trasmissione più conosciuti, si dovrà sottolineare che si tratta dei percorsi di due Stanislavskij diversi, se non addirittura antagonisti. La questione dei “veri libri?? di Stanislavskij – quelli in inglese oppure quelli in russo –, ancora una volta segnalata dall'autore di questa nota nel saggio che apre il volume, non sembra ancora essere stata acquisita come una questione dirimente per lo studio della trasmissione di “Stanislavskij nel mondo??. (Franco Ruffini)


Tra mare e terra. Commedia dell'Arte nella Napoli spagnola (1575-1656) Teresa Megale Roma, Bulzoni, 2017

A fronte di una storiografia teatrale sensibilmente sbilanciata sul professionismo comico dei ‘lombardi', il volume sposta il peso dell'indagine a favore dei ‘napolitani', restituendo (con un nutrito apparato bibliografico e di fonti) un quadro critico della scena partenopea molto utile a riequilibrare, a ‘nord' e a ‘sud', la visione complessiva ed estremamente articolata della stessa Commedia dell'Arte. Rispetto al ‘nord', il saggio pone in evidenza l'esistenza diffusa di un professionismo teatrale che non si fregia di nomi accademici e di circuitazioni regolate dal mecenatismo aristocratico delle corti. Un professionismo in buona parte anonimo e materiale, alternativo a quello autoriale dei ‘comici professori' che scalavano le vette di Parnaso con ambizioni poetico letterarie. Una comicità di mestiere, fondata su un artigianato ancora ampiamente declinato al maschile, lontano dai canoni nobilitanti del gesto e della presenza femminili. Rispetto al ‘sud', il libro si pone invece come antidoto allo stereotipo di un'improvvisa parodica e buffonesca. La sua ricognizione fa emergere la nebulosa instabile, ma estremamente viva, di un mercato teatrale in continua evoluzione, fatto di spazi debitamente allestiti e di attori consapevoli del proprio ruolo di impresari. È dunque in questo tessuto spettacolare liquido e sfuggente, ma, come dirà Benjamin nel descrivere Napoli, estremamente ‘poroso', che prendono vita quelle figure che diventeranno i tipi del comico partenopeo: dalla “disciplinata goffaggine?? del Pulcinella “cuccumaro?? alla maschera vanagloriosa del Capitan Alonso Coccodrillo. Icone di una teatralità contaminata di italiano e spagnolo, anzi, fatta di spagnolo italianato, di cui resterà emblematica memoria nella genesi ibridata della figura del Don Giovanni. (Fabrizio Fiaschini)


Commedia dell'Arte in Context edited by Christopher B. Balme, Piermario Vescovo and Daniele Vianello Cambridge, Cambridge University Press, 2018

Un volume per fare il punto sulla Commedia dell'Arte. Raccoglie i contributi di quasi tutti gli studiosi che ne hanno parlato nel modo più innovativo, in gran parte italiani, si occupa dell'improvvisazione come dei viaggi, del carnevale, della danza, dei numerosi paesi attraversati, delle reazioni della Chiesa e della cultura dominante, delle conseguenze nell'Opera, nella danza e nel teatro, del mito novecentesco e della realtà storica. Con una ricca e precisa introduzione di Vianello e una interessante conclusione di Balme.


A bout des lèvres Peter Brook Odile Jacob, 2018

È uscito a inizio anno un nuovo libro a firma di Peter Brook, A bout des lèvres. Diviso in tre parti, il testo – tradotto dall'inglese da Jean-Claude Carrière – espone le riflessioni di un uomo di teatro che nonostante l'avanzare dell'età dimostra di non perdere né la propria curiosità né la capacità di essere attuale. La riflessione che emerge dalla prima parte del libro riguarda le parole che, con le loro regole e bizzarrie, esprimono allo stesso tempo forza unificatrice e divisiva; divisiva poiché, nonostante tutto il tempo trascorso in terra francese, Brook confessa a i propri lettori di sentirsi ancora linguisticamente straniero. La prospettiva adottata dall'autore procede dal basso verso l'alto: la parola è lo strumento principale della vita quotidiana, è l'elemento che ci consente di orientarci e di vivere, tuttavia essa non ha niente a che fare con la parola che un artista porta sulla scena. Nella seconda parte del libro, Brook apre una finestra sui propri ricordi, sulla ricerca di senso e sul suo rapporto con le forme, alla quale queste ultime dovrebbero essere sempre subordinate. Nella terza parte del volume, infine, emerge la figura di Shakespeare. Ogni sua parola, scrive Brook, è un punto di partenza per quell'universo di riflessi e rifrazioni di luce che è il teatro. (Gaia Clotilde Chernetich)


Arlecchino, La Umana Commedia di Arlecchino. Tra iconografia antica e ritratti d'arte del primo Arlecchino donna Claudia Contin Trento, Edizioni Forme Libere, 2017

Come tutti i libri di Claudia Contin Arlecchino, anche questo poderoso volume (594 pp.) è uno spettacolo, monologante, divagante e dilagante all'apparenza, ma che l'autrice tiene in pugno con la stessa energia d'attore e la presa sul pubblico (lettore questa volta) che non perde mai di vista e sempre coinvolge in mille modi, un po' conferenza, un po' commedia dell'arte, un po' improvvisazione, un po' lezione teorico-pratica e, per cominciare, tanta storia perché la storia è il magazzino/fonte inesauribile di ispirazione. Così traccia una storia di Arlecchino dalle leggendarie radici nel Medioevo, attraversando la Divina Commedia illustrata da Doré, a Goldoni, a Strehler, fino a oggi in un ‘vortice temporale' che intitola ‘Cantica prima'. Arlecchino attraversa i secoli e le culture adattandovisi e rimanendo al fondo se stesso, un revenant perenne errante, esiliato, ritornante; ma, soprattutto, la maschera antica viene qui reinventata su solide documentate basi storiche e sulla vis comica dell'Arlecchino attuale che coglie in trasparenza nella storia significati attuali svelandone i segreti messaggi. Arlecchino presta al professore la lingua energica e il punto di vista eccentrico, e Contin contribuisce con la vastità e pertinenza dei suoi campi di interesse e della sua formazione: gli studi di architettura e di anatomia artistica, la laurea all'Università di Bologna. Tutta la filologia e i saperi presenti nel libro sono per l'autrice base necessaria per la sua operazione: scrivere e riscrivere, su di lui e per lui, come quando compone i copioni scenici, o disegna e dà forma alle sue maschere, o studia da modella per altri artisti le dinamiche difficili e stranianti del comportamento scenico di Arlecchino. La ‘Cantica seconda' illustra quella complessità nell'attualità d'oggi; le pagine quindi compongono una mostra d'arte e allo stesso tempo l'affascinante catalogo della mostra stessa intrecciato a trame biografiche, storie e progetti degli artisti visivi che negli ultimi decenni hanno scelto Arlecchino come modello o ispirazione. Nella ‘Cantica terza', vortice di memorie, la complessità di Arlecchino è indagata nei carnevali antichi e nuovi, e nelle assonanze con il mondo selvatico e l'uomo vegetale, per arrivare al suo “Arlecchino Ennesimo??, il primo Arlecchino donna (avendolo dotato di credenziali). Concludono il libro una ricca bibliografia e l'utilissimo elenco con le puntuali referenze iconografiche delle 201 riproduzioni del volume, delle quali, almeno una settantina, provengo- no dall'Archivio del Laboratorio Porto Arlecchino di Pordenone fondato dalla stessa Contin. (Clelia Falletti)


Registres VII. Les années Copiaus (1925-1929) Jacques Copeau. Textes établis, présentés et annotés par Maria Ines Aliverti. Préface de Maria Ines Alverti et Marco Consolini Paris, Gallimard, 2017

Il settimo tomo dei Registres è curato da Maria Ines Aliverti, mentre Marco Consolini curerà il prossimo. Questo volume, il settimo, è un libro veramente bello e importante, ricco di scritti affascinanti di Copeau, puntuale e appassionato per quel che riguarda la curatela. D'ora in poi imprescindibile. Al suo centro, del resto, c'è la storia dei Copiaus, con tutto quello che ciò comporta, problemi tra i più appassionanti del Novecento ai suoi inizi: pedagogia, separazione, arte degli attori, relazioni con il pubblico, teatro come marginalità rivendicata, e non più come emargina- zione. Ricerca di luoghi altri rispetto alle capitali. Ma oltre ai Copiaus c'è un altro filo fondamentale: la consacrazione di Copeau come maestro internazionale di teatro, e fondatore di un mondo teatrale nuovo. Ecco che la parte forse più appassionante di questo volume diventa Le détour américain. New York 1926-27, il racconto della paura di Copeau, chiamato a New York per una messinscena dei Fratelli Karamazov, ma ancora scottato dal ricordo un po' amaro della tournée 1917-19 del Vieux-Colombier. Ma anche il racconto della consacrazione della grande critica americana, che lo identifica, forse prima ancora di quella europea, come un appartenente al gruppo ristretto degli artisti-teorici che hanno reso possibile la grande trasformazione teatrale di quei decenni – un movimento di cui Stanislavskij e Copeau vengono dichiarati fondatori, a pari merito con Craig o con Appia. La curatrice ci racconta come sia a partire dallo sguardo americano che la sperimentazione in Borgogna cominci a essere considerata non più con stupore attonito (come aveva fatto la critica europea, in particolare francese), ma con l'interesse che si dedica a una sperimentazione innovativa e fondamentale. Di questa permanenza americana, inoltre, viene raccontata anche la “scoperta?? dei russi da parte di Copeau, e la sua lettura di Stanislavskij, non immediata, ma fondamentale («Nul n'imitera l'art di Stanislavski – scrive Copeau introducendo un libro del collega russo – Il ne tient pas dans une formule. Il a son secret. Pour le surprendre, il faudrait s'égaler à lui», p. 172). Nella Préface, la Aliverti e Consolini spiegano la logica di questo e del prossimo volume, il modo in cui hanno cercato di dar conto della ricchezza di iniziative di Copeau negli anni successivi al Vieux-Colombier; la scelta di ripubblicare alcuni testi di questi anni già presenti in altri Registres, se fondamentali; la scelta di dare un peso tutto particolare alla corrispondenza di Copeau con la gente di teatro (in genere trascurata a favore di quella con scrittori e intellettuali).


L'opera dello straccione di Vito Pandolfi. Il mito di Brecht nell'Italia fascista Raffaella Di Tizio Ariccia (RM), Aracne, 2018

Che Brecht non sia solo l'autore di testi teatrali e della rivoluzione tecnica del teatro epico, ma anche l'ispiratore di una profonda ridiscussione del senso del teatro sulla base della sua efficacia sociale e politica, è cosa oggi nota. Eppure lo studio della sua ricezione, guardando al passato, si è spesso fermato alla lettera dei suoi drammi, senza indagare le ragioni di fondo e i risultati di esperienze teatrali che con meno immediata evidenza a lui facevano diretto riferimento. Il volume di Raffaella Di Tizio capovolge le prospettive tradizionali, ricostruendo una storia in gran parte dimenticata per eccesso di senno del poi: ripercorre le tappe della prima ricezione italiana di Brecht e lo sviluppo della particolare idea del teatro difesa da Vito Pandolfi. Comprende una analisi delle due messinscene della Dreigroschenoper sotto il regime: la versione del 1930 di Anton Giulio Bragaglia, realizzata sull'onda del successo berlinese, e (soprattutto) lo spettacolo di Pandolfi, di cui l'autrice ricostruisce con amore il complesso tessuto di senso per dimostrarne l'importanza e il valore storico.L'opera dello straccione è il saggio di diploma all'Accademia d'Arte Drammatica che Pandolfi mette in scena al Teatro Argentina di Roma l'11 febbraio del 1943, in piena guerra: formalmente una messinscena della settecentesca Beggar's Opera di John Gay, in realtà una personale versione della proibita Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Fu uno spettacolo importante, che entusiasmò il suo pubblico, ma viene regolarmente omesso nelle disamine sulla fortuna dell'autore in Italia. Quando nel ‘56 Giorgio Strehler mise in scena al Piccolo Teatro di Milano, con grande successo e alla presenza dell'autore, la sua Opera da tre soldi (inaugurando un lungo periodo di predominio sui diritti dei suoi drammi) – si posero le premesse per una divisione tra un prima e un dopo nella conoscenza italiana di Brecht, e per le precedenti esperienze si iniziò a parlare di «preistoria», o di una fase leggendaria. Se gli allestimenti del dopoguerra di Gianfranco De Bosio e di Luciano Lucignani vennero ridimensionati in base allo scarso pubblico raggiunto e alla mancata continuità delle loro esperienze (come dimostra anche il recente Un Galileo a Milano, di Massimo Bucciantini, Torino, Einaudi, 2017), con più facilità si poterono liquidare lavori realizzati in epoca di fascismo e oscurantismo – e a maggior ragione uno spettacolo che, pur meritando l'interesse dell'impresario Remigio Paone, non era potuto andare in scena che una sera soltanto.


Crescere nell'Assurdo. Uno sguardo dallo Stretto Lorenzo Donati e Rossella Mazzaglia Torino, Accademia University Press, 2018

Un libro strano, però coinvolgente, anche se resta un po' difficile capirne l'oggetto e il contesto. Racconta una tappa di un progetto triennale all'interno di un più ampio progetto “crescere spettatori??. Questa tappa (la seconda), ambientata a Messina, ha coinvolto artisti e docenti, e molti mesi di lavoro preparatorio per un laboratorio finale che si è svolto tra il 14 e il 16 novembre 2016. O forse bisognerebbe definirlo all'opposto come un lunghissimo laboratorio culminato in tre giorni finali di cammino. È stata una «esplorazione multipla dal pieno al vuoto della città, dai grovigli urbani alle rovine marittime»: un gruppo di studenti è stato portato a fare esperienza dei luoghi (di Messina) e dell'arte (teatrale), in partecipazione diretta. Prima di tutto camminando. E fotografando. Le città sono le persone che ci vivono dentro, dice la postfazione di Graziano Graziani. Le tracce che queste storie lasciano nel tessuto urbano, però non solo quelle visibili. E per catturare quelle invisibili, nella testa della gente e nelle piccole leggende che si tramandano, non c'è niente di meglio del teatro. Perché, conclude Graziani, il teatro ha a che fare con le persone, e sa raccontarne le storie, senza piegarsi a una semplice narrazione lineare. Forse per questo ha tanto a che fare con la città.


La voce in una foresta di immagini invisibili Chiara Guidi Milano, Nottetempo, 2017

I libri scritti da attori sono tracce di un teatro che la riproducibilità tecnica non riesce a trattenere, sono i testimoni che continuano a parlarci oltre il tempo. La voce in una foresta di immagini invisibili è un bel dono che Chiara Guidi rivolge ad attori e spettatori, illuminando i suoi processi creativi attorno alla voce. L'attrice e autrice sceglie una forma sospesa tra autobiografia e saggio partendo dalle esperienze e da molti racconti: la morte del padre, ricordi d'infanzia, la stanza buia di cui aver paura ma a cui non poter resistere. Il libro ci racconta di una ricercatrice sul campo, del suo lavoro su una voce che impara a non cedere mai al valore semantico della parola, ma scommette sulla percezione del proprio esistere materialmente e si fa immagine del buco nero che è in gola. Con generosità Guidi correda il libro di immagini tratte dai suoi appunti, reticoli di segni grafici, esempio di una pratica artigianale che le ha permesso di arrivare al suono-immagine, mai cristallizzato, sempre polimorfo. Nelle pagine finali su un foglio a righe di terza elementare Chiara Guidi apre l'ennesima stanza segreta, e consegna un messaggio “A te, povero attore!?? perché le parole non sia- no riparo e scudo, perché siano uno solo dei modi in cui suona la voce. (Doriana Legge)


Sul Nerone di Boito Gerardo Guccini .

in «Drammaturgia», XIII, n. 3, 2016, pp. 7-36 In genere diamo notizia di libri, non di saggi. Ma esiste un libro diffuso sul teatro d'Opera di Gerardo Guccini, sparso in riviste e programmi di sala, di grande intelligenza, sensibilità e interesse, che va quindi segnalato con forza. Il saggio sul Nerone va letto come un capitolo centrale di questo libro. È una analisi bella e partecipe dell'anomalo processo di composizione di quest'opera. A differenza del Mefistofele, dice Guccini, che di Boito illustra le battaglie e le strategie, il Nerone rappresenta «l'oscuro divenire di un teatro interiore che avvalora e difende la propria condizione di assoluta idealità sottraendosi con lucida determinazione agli appuntamenti col mondo reale». Sono questioni centrali, ma anche impalpabili, sfuggenti, e Guccini le affronta coraggiosamente, descrivendo un percorso al di fuori del teatro materiale, ma non perciò meno reale, svolto in una dimensione psichica «che introiettava tecniche, innovazioni e abilità diverse, mantenendo gli esiti via via conseguiti in uno stato di virtualità irresoluta e sperimentale che li rendeva continuamente reversibili, correggibili, sostituibili». Non più maestro di musica, Boito rimane ciò nonostante propulsore indiretto di forme d'arte, attraverso la sua collaborazione con la Duse da una parte e con Verdi dall'altra, capace di «attivare in altri espressioni sceniche che entrassero nell'immaginario collettivo modificando la storia della cultura e del teatro». Diamo qui conto degli altri capitoli di questo libro diffuso, e fondamentale, in cui, come si può vedere anche da questo piccolo assaggio, i temi che si affrontano sono tanto poco ovvi quanto stimolanti.Giuseppe Verdi autore di mises en scène, in AA.VV., Giuseppe Verdi, vicende, problemi e mito di un artista e del suo tempo, Colorno, 1985; Wa- gner: sull'attore, «Teatro Festival», n. 6, Dicembre-Gennaio 1986-87; Il melodramma e il teatro dell'attore, «Teatro Festival», nn. 10-11, 1987; Direzione scenica e regìa, in Storia dell'opera italiana, V, La spettacolarità, a cura di Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli, Torino, EDT/Musica, 1988, pp. 125-174; La drammaturgia dell'attore nella sintesi di Giuseppe Verdi, «Teatro e Storia», ottobre 1989; Kostantin Stanislavskij. Partitura registica per l'opera “Rigoletto'', a cura di Gerardo Guccini e Alessio Bergamo, «Teatro e storia», n. 15, ottobre 1993; Drammaturgia d'espressione: una nota, in AA.VV., L'opera teatrale di Gaetano Donizetti. Atti del Convegno Internazionale di Studio 1992, Bergamo, 1993; Strehler: l'impegno a restituire l'opera così com'è, «II Giornale della Musica», n. 135, febbraio 1998; Le opere senza canto di Giovanni Tamborrìno. Drammaturgie e ricerche alla confluenza dei teatri, a cura di Gerardo Guccini, Bologna, CLUEB, 1998; I due Mefistofele di Boito: drammaturgie e figurazioni, in William Ashbrook - Gerardo Guccini, “Mefistofele?? di Arrigo Boito, Milano, Ricordi, 1998, pp. 147-318; Attori e teoriche nell'Europa romantica. Note sparse su Modena, Mazzini e l'Opera, in Riflessi europei sull'Europa romantica, a cura di Annarosa Poli - Emanuele Kanceff, vol. I, Moncalieri, CI.R.V.I., 2000, pp. 93-138; Loci sonori: i comici e l'invenzione del melodramma, «Drammaturgia», n. 10, 2003, pp. 141-200; Un musik-melodrama. “La fanciulla del West?? fra Wagner e Belasco, in Giacomo Puccini, La fanciulla del West, Teatro Regio Torino. Stagione d'Opera 2003-2004, pp. 23-43; Verdi regista: una drammaturgia fra scrittura e azione, in Enciclopedia della musica. Storia della musica europea, Torino, Einaudi, 2004, pp. 937-950; Pensare il melo/dramma, «Prove di drammaturgia», 2005, 1, pp. 14-15; I tre enigmi di “Turandot??: processo compositivo, posizione storica, modernità teatrale, in Renzo Restagno, Gerardo Guccini, Angelo Chiarle, Valentina Pregliasco, Giorgio Rampone, Luca Scarlini, Simone Solinas, Enrico M. Ferrando, Turandot, Torino, Teatro Regio Torino, 2006, pp. 27-43; Luchino Visconti, il mago, «Il giornale della musica», 2006, 225, pp. 24-24; La linea Meininger, Antoine, Carré, «Prove di Drammaturgia», n. 2/2007, pp. 26-28; Strehler e l'anima di Mozart, «Il giornale della musica», 2007, 243, pp. 38-38; Colpa e pena nel mito di Don Giovanni dal “Burlador?? a Mozart, in Sara Zurletti (a cura di), Don Giovanni. Il dissoluto punito, Atti del Convegno di studi “Mozart 1765-2006. Don Giovanni. Il dissoluto punito??, Napoli, CUEN, 2008, pp. 119-141; Note sulla cultura del corpo nei can- tanti lirici. Esempi e riflessioni, in Clelia Falletti (a cura di), Il corpo scenico, Roma, Editoria & Spettacolo, 2008, pp. 235-250; L'opera come teatro. Percorsi e prospettive della regìa lirica, «Il saggiatore musicale», 2010, 1, pp. 83-98; La regìa lirica, livello contemporaneo della regìa teatrale, «Il castello di Elsinore», 2010, 62, pp. 83-104; Gustavo Modena librettista. Un progetto non realizzato fra utopia politica e riforma del teatro d'opera, in AA.VV., Ripensare Gustavo Modena attore e capocomico, riformatore del teatro fra arte e politica, Acireale-Roma, Bonanno, 2012, pp. 25-40; Intorno allo schiaffo di Norina: una fonte ignorata del “Don Pasquale?? di Gaetano Donizetti, in “Sul fil di ragno della memoria??. Studi in onore di Ilona Fried, Budapest, Eotvos Lorand Tudomanyegyetem Bolcsészettudomanyi, 2012, pp. 267-281; Giraldoni, Delsarte, i baritoni. Alcuni retroterra teatrali della poetica verdiana, «Studi verdiani», 2013, 23, pp. 83-144; Da Metastasio a Vacis. Gli spazi del teatro d'opera fra pratiche e concetti, «Prove di drammaturgia», 2015, 1, pp. 23-30; La musa meticcia. Materiali d'autore per la conoscenza e lo studio della regia lirica, «Culture teatrali», 2016, 25, pp. 125-177; Dilettevole ma non troppo, il mito della Donna serpente fra Gozzi, Lodovici e Casella, in Casella Alfredo, La donna serpente, Torino, Edizioni della Fondazione Teatro Regio di Torino, 2016, pp. 29-46; Teatro e musica, in Il teatro e le arti. Un confronto fra linguaggi, a cura di Luigi Allegri, Roma, Carocci, 2017, pp. 93-125.


Immagini di danza. Fotografia e arte del movimento nel primo Novecento Samantha Marenzi Spoleto, Editoria & Spettacolo, 2018

Cosa sono le immagini di danza? Scenari interiori che affiorano e modellano il corpo, forme create dai movimenti, capolavori del passato che ispirano le movenze e riempiono i gesti di significati. Ma anche raffigurazioni che documentano e conservano la memoria. Nei primi decenni del Novecento le immagini contribuiscono alla grande rigenerazione della danza che accede al dominio dell'arte e penetra nelle opere degli artisti visivi. Pittori, scultori, disegnatori, e, dall'inizio del secolo, anche fotografi, fondatori della fotografia artistica sulla cui scena la danza trova uno dei suoi piani di realizzazione. Una fotografia che non si limita a registrare il movimento del corpo, ma vuole evocare gli impulsi e le sorgenti della danza. Questo libro traccia i contorni della genesi della fotografia di danza, che sono sfumati e conservano l'idea di trasformazione che caratterizza l'inizio del secolo. Cinque figure ne hanno guidato la ricerca: Edward Steichen col suo ruolo nella nascente fotografia artistica; Edward Gordon Craig con la sua visione dell'arte del teatro; Édouard Schuré con la sovrapposizione tra arte e religione; Antoine Bourdelle coi movimenti vibranti delle sue sculture; Isadora Duncan, sacerdotessa dell'arte e del culto della nuova danza. Duncan antica scultura che rivive nella modernità, protagonista delle opere dei suoi contemporanei, figura universale della danza che sopravvive nella pietra, nei disegni, e nelle fotografie.


?Atto secondo. Nel mare del teatro (1966-1993) Antonio Attisani Torino, Lexis, 2018

Un piccolo libro di memorie, un po' agrodolce, come spesso sono le memorie quando non si trasformano in confessioni. Attisani è personalità multipla, è stato ed è molte cose, ma in primo luogo attore, critico, direttore della indimenticabile «Scena» e di festival, oltre che studioso e professore di teatro. Avversario o protagonista in molte diatribe, discussioni e lotte del teatro italiano. In quanto libro di memorie, è in primo luogo una fonte, e quindi queste pagine non sono probabilmente il posto giusto per parlarne. Ma in tempi in cui si ritorna a discutere e a cercare di analizzare i difficili anni Settanta (e Ottanta) lontani da questi nostri giorni fino a essere incomprensibili, o incomprensibilmente mitici, per le generazioni successive, queste memorie diventano una testimonianza di discussioni, parzialità, forme di reazione (come quella al rapimento Moro) ora difficili da capire o interpretare.